Lettera a M.
di Giovanni Deuscit
Editing di Laura Zangarini
L’unica è raccontarsela come una storia d’amore, e per cominciare devi tornare indietro di venticinque anni.
Come quando eri appena sceso dal treno che dalla Sicilia ti portava a Milano, tirandoti dietro il trolley, ed eravate immersi, tu e la valigia, nell’odore di fritto americano e urina di via Gluck, vicino alla Stazione Centrale, andavi a passi solidi e decisi perché non ti importava delle buche, della spazzatura e delle cose che non funzionavano, eri venuto per restare, e restando l’avresti capita: capire Milano è l’ultimo dei problemi, dopo che per abbatterli hai sparato a tutti gli altri.
Ma siccome ai problemi non hai mai saputo sparare, allora li avevi lasciati sul treno, pigiati dentro una parola invecchiata: infanzia. Sceso dal treno, dopo l’infanzia non può che esserci l’amore, perché quale altra parola può essere tanto forte e limpida da saper recitare il suo ruolo della vita adulta; bisogna attraversare una stazione da poco rifatta, che ha dentro un centro commerciale, una palestra, un ospedale, un ufficio delle poste, una città dei giocattoli e invece è la prima fra le città dei grandi.
Quale parola se non amore può fingere senza vacillare che sia importante, che ne valga la pena – essere adulti, essere cresciuti, avere lasciato una prima vita in una carrozza di seconda classe all’inizio del millennio per una città diversa da quella in cui sei nato, una città che ti accoglierà subito e non ti accoglierà mai.
La più esatta definizione l’ha data Giorgio Agamben in un libro a mio parere meraviglioso del 1985, “Idea della prosa”, non dell’amore ma dell’idea dell’amore: “vivere nell’intimità di un essere estraneo, e non per avvicinarlo, per renderlo noto, ma per mantenerlo estraneo, lontano, anzi: inapparente – così inapparente che il suo nome lo contenga tutto. E, pure nel disagio, giorno dopo giorno non esser altro che il luogo sempre aperto, la luce intramontabile in cui quell’uno, quella cosa resta per sempre esposta e murata“.
Quel disagio è la vita, la tua infanzia è esposta, è murata, tutto da ora ti sarà estraneo: è l’amore, e comincia quel giorno alla Stazione Centrale di Milano.
Mentre misuravi il perimetro della stazione da destra a sinistra, tutto ciò che avevi intorno diventava affare tuo: chi dormiva dentro i cartoni e chi si guardava intorno con le mani in tasca; la manager dalla pelle di ghiaccio e la portoricana vestita di rosa; l’angolo dei polacchi e le famiglie senegalesi; il franchising di borse scadenti; e la Caritas, la farmacia, le poste, il supermercato, il tram; le voci alte e brulicanti; le voci basse con le proposte di droghe o molestie, la fila dei taxi, i taxi illegali, gli studenti sotto i cartelloni delle partenze e gli altoparlanti che insistono con l’annuncio degli arrivi; le scolaresche ammassate a bloccare il viavai delle valigie; i pullman con gli sportelli aperti e i bagagli coi talloncini freschi dell’aereo; la metro la vetrina la libreria; il bar siciliano i negozi di dischi e il chiosco con l’anguria; l’edicola con i giornali internazionali, il rumore del trolley sul marciapiede, rapidissimo perché la vita adulta ti stava aspettando. Quando è così non si rallenta nemmeno per sbaglio, è la città che ti aspetta, la città certo non aspetta te.
L’unica è raccontarsela come una storia d’amore, perché all’inizio nessuno pensa che pure quella parola, amore, si esaurirà.
Pensa: l’infanzia è finita ma l’amore durerà, l’amore non è un’età della vita, al massimo è essere adulti e dire “adulti” è come dire “per sempre”, è la stessa cosa, o almeno così dev’essere. Invece dev’esserci una terza parola e ti sta spettando da qualche parte, intanto però di città ne hai già cambiate due, la tua e quell’altra che ora è la tua, e per te che sei stanziale è come dire duecento, anzi duemila; un trasloco è l’ultima cosa di cui hai voglia, non ne avrai voglia mai più, potresti anche ammalarti e invecchiare e morire senza muoverti, resterai per sempre là dove ti sei trasferito, resterai per sempre fermo a girare in stazione, e hai intorno: libri, tazze, lampadine accese, plaid, indumenti spaiati; penne che non scrivono; pochi oggetti superstiti dalla prima vita, quella dell’infanzia.
Ma l’infanzia è invecchiata e poi morta, ora hai intorno la seconda vita e la città, quella che è diventata tua.
Nel frattempo, in venticinque anni, qualche volta l’hai capita, e te lo sei tenuto per te, perché era più bello che sbandierarlo, era meno ovvio che scriverlo, non volevi che diventasse una Milano fra tante, la Milano di tutti.
Bastava non arrivare in fondo, sottrarre poche lettere, farla diventare un segreto.
Dentro di te hai cominciato a chiamarla M., un modo per illuderti, per odiarla in pace senza schierarti e amarla in pace senza celebrarla.
Hai partorito una città fatta di niente a cui nella tua vita segreta hai concesso il lusso che nessuno le concedeva, il privilegio che i libri, i film, gli scontri elettorali, i sindaci sbagliati, i turisti, i reportage, i commenti della tua famiglia, i racconti degli scrittori, le cartoline, i ristoranti veri e quelli (milioni) finti, le congestioni, le manifestazioni, le saracinesche di ferragosto, i chioschi non avevano lasciato: essere uguale a tutte le altre.
Una qualsiasi di mille provincie di un’Italia fatta di provincie.
Una e basta. E M. ti aveva ringraziato.
Libera e sollevata, alleggerita del dover essere, fuori dall’obbligo inarrestabile della decadenza, dismesso l’ammicco di cartolina, per prima cosa si era sgranchita le gambe.
Come un morto tornato vivo sulla terra, uno che desiderava solo farsi un liquore o una fumatina di nascosto, concedersi un piccolo vizio, un errore umano.
Tu per non soccombere all’opulenza del narrato, per venticinque anni a M.
Gli altri che vivessero dove preferivano, cercassero luce, i colori, i fotogrammi, che si sentissero depositari della vera Milano e se la litigassero tra loro.
Ogni tanto qualcuno che non ci abitava si voltava all’improvviso per chiederti: e come viverci? Nessuno che ponga una domanda del genere è interessato a conoscere la verità, quindi basta rispondere quello che l’interlocutore vuole sentirsi dire e fine della conversazione.
La tua storia con M. restava segreta. È durata finché s’è potuto, nessuno ci avrebbe scommesso, in fondo era il colpo di fulmine fra un ventenne e una millenaria.
Dunque, hai vinto. Contro chi non si sa, però hai vinto, e siccome non vinci mai quella vittoria te la tieni stretta, è tutto lì il motivo per cui ti dispiace lasciarla andare.
Ti prende male come dicono a Milano, e forse lo dicono anche a M., però nessun amore resta uguale. Qualcosa si è spento.
L’amore finisce e non devi rimproverarti per non averlo curato, al limite è lui che non ha curato te.
Ma non te ne andrai. Non te ne sei andata.
Non sei una che lascia. Devi solo cercare nuove strade.
L’unica è raccontarsela come una storia d’amore. L’unica, quando l’amore non c’è più e l’abbandono non è ancora stato recitato, quando ti sei svegliata una mattina ed erano duecento mattine che dormivate accanto logorati ed estranei, è ritrovare la strada dall’inizio e farsela tutta quella strada, una mattonella dopo l’altra, con più lentezza per i giorni in cui è cominciata. La lentezza bisogna aggiungerla adesso, perché invece quel giorno avevi fretta, la fretta intransigente di chi deve cominciare una seconda vita, o almeno venticinque anni della medesima.
Ora la invidi quella fretta, non ce l’hai nemmeno quando dovresti, tutta! più la reciti quando se la aspettano da te, quando sai che dovresti provarla, a ridosso di una scadenza, e reciti tanto bene che sembri davvero affannata. Ora sei calma, come possono essere calmi i non più innamorati.
Ora puoi fermarti a scrivere una lettera di mezza stagione, che è il modo in cui vi guardate tu e lei, tu e la città: senza entusiasmo, ma senza neppure un addio.
E già questo è sbagliato, stonato, senza direzione, perché le si appartiene o la si detesta, lo sanno tutti, lo sa pure l’ultimo degli ultimi. Nella letteratura, nel cinema, nelle foto sulle bancarelle, nel calcio, nelle mattine di chi ci vive tutti i giorni, nelle esclamazioni di stupore di chi non ci vivrà mai, nello stupore di chi è nato ma si sposta per la prima volta dal suo quartiere, nell’eterna rigenerazione dei fuori sede, nell’infinità riproposizione di passeggiate latine e vite sotterranee e delinquenti, nel fanatismo della luce d’autunno, nelle dismissioni di inizio estate, negli inverni infernali, nelle estati più calde del secolo: amala o odiala, difendila o lasciala andare, sputale addosso o mettiti al suo servizio, fallirai in ogni caso. Scegli: non posso vivere fuori dalle sue circonvallazioni raccordo, oppure mi sembra di morire appena esco dalle sue circonvallazioni. Comunque scegli, hai capito, scegli. Tu non hai scelto. Ti sei costruita M.; mattoncino dopo mattoncino, e quando parlano di quell’altro posto sorridi e osservi e ascolti come se stessero parlando di un luogo esotico.
Ora che sei ferma, torni al primo giorno.
L’unica è raccontarsela come una storia d’amore, la città c’era prima di te e ci sarà dopo di te, il tuo passaggio le è stato lieve. Il corteggiamento, invece, lo ricordi bene. “ho un biglietto di sola andata”, “sai quanto ho penato per venire qua?”, “sono piuttosto certo che con te sarò felice”. Quante gliene hai dette, quante volte gliele hai dette, e in quante occasioni diverse, sottolineando stizzito che non eri arrivato vestito da studente fuori sede ma con una laurea con lode all’età in cui metà dei tuoi coetanei aveva abbandonato o era fuoricorso, e insieme alla laurea la divertita certezza che quella carta che attestava la tua prima vita, non sarebbe servita a niente. Anzi: gli studenti fuori sede avrebbero avuto più identità di te.
Però resterai, e forse l’amore tornerà.
La città non smetterà di essere raccontata, mentre di M. non si può raccontare niente. Un dialogo fra voi suonerebbe più o meno così: “Ti ricordi quel giorno? “,”Sì, quello”, “Cresceremo, prima o poi?” “Tu sei già cresciuta”, “Tu invece non crescerai mai”. Le parti potete invertirle, e poi invertirle ancora. L’avete già fatto, lo farete più o meno per sempre.